Nel mezzo del rientro a casa, tra lampioni spenti e umido pungente, ho scorto un ruscello in piena.
Nessuna luce ad illuminare, nessuna luna a rischiarare eppure l’acqua guizzava veloce e piccole creste di luce riflettevano bagliori provenienti da chissa’ dove.
Avrei voluto abbandonare tutto e immergermi in quei piccoli lampi, farne parte come non fossi mai stato altro, come non fossi mai appartenuto ad altro.
Non l’ho fatto; troppo piccolo, troppo ordinario, troppo stanco, sempre troppo stanco, maledettamente stanco.
Il corpo, la mente, l’anima hanno risposto e qualcosa dentro si e’ sentito soffocare.
Aria, aria gelata dai finestrini abbassati, umido a rinfrescare il senso di esserci, una ventata bagnata a ricordare che non tutto e’ rimasto sparso in stanze deserte e impolverate.
Ma si, del resto che importa di cosa non ho fatto, di cio’ che non e’ accaduto, di quanto mi senta lontano e in fuga, della voglia di fumare che fa persino male, della voglia di non esserci.
La sensazione di essere in ritardo una volta di troppo, lanciare in aria con movimenti precisi e secchi le carte del proprio mazzo e imparare a proprie spese che le carte stanno finendo.
E dopo?
Dopo che vuoi che sia…
Il mio fiume rimane la’, qui le carte ai miei piedi e resto, resto perche’ in fondo e’ il migliore dei posti possibili, il solo posto possibile, finche’ c’e’, finche’ ci sono, finche’ mi sara’ concesso.
Ci provi lo specchio a inghiottire
nella sua acqua cupa
non l’ apparenza, ma il volto
che l’assenza, sciupa